"La perfida Albione, dea della sterlina". Così, durante il ventennio fascista, veniva definita, con scherno, la grande democrazia britannica, grazie alla cui determinazione l'Europa non si arrese alle mire egemoniche del Terzo Reich. Una nazione, quella inglese, di consolidata tradizione democratica e parlamentare, retta da un'antica monarchia costituzionale, patria del "Bill of Rights", il codice dei diritti civili di cui possono godere tutti i cittadini. Quegli sberleffi si intensificarono all'indomani delle sanzioni economiche, votate dalla Società delle Nazioni proprio su indicazione di Londra, negli anni a cavallo tra il 1935 e il 1936, contro l'Italia di Mussolini per l'occupazione dell'Etiopia e la cacciata del negus Hailé Selassié. Tuttavia, per ironia della sorte, furono proprio gli inglesi ed i loro alleati americani ad aiutarci, in seguito, a liberare il nostro Paese dall'occupazione nazista e dal residuo regime fascista di Salò, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e la conseguente invasione tedesca. Grande potenza navale di antiche tradizioni liberali, l'Inghilterra, nel corso dei secoli, ha saputo conquistare colonie in ogni angolo del mondo, raggiungendo la dimensione di potenza economica e militare globale senza mai recidere, neanche nell'era moderna, il cordone ombelicale con l'America del Nord, antico possedimento inglese costituitosi in Stato autonomo con la Costituzione di Filadelfia del 1787. Indipendenza mirabilmente narrata da Alexis de Tocqueville con il libro “ La democrazia in America”. Sono quegli stessi antichi legami che oggi si rinnovano con la visita di Stato di Donald Trump in Inghilterra, ove il presidente statunitense è stato accolto con un'imponenza cerimoniale senza precedenti. Per farla breve, in un contesto di generale diffidenza e ripicche economiche (dazi, sanzioni, tensioni nei commerci) nei confronti della Vecchia Europa, il gigante d'Oltreoceano ha scelto di fare un'eccezione con gli Inglesi e il loro Paese. Non a caso la politica estera e quella di rivendicazione economica da parte dell'inquilino della Casa Bianca, si è dissolta e addolcita di fronte all'antica madrepatria, al fedele alleato di un tempo che, peraltro, con la Brexit si è svincolato dai vincoli monetari e politici di Bruxelles. Dal canto suo la stessa "Albione" si è mostrata un alleato coerente e fidato degli Usa, pur assumendo posizioni divergenti in varie vicende che interessano il teatro geopolitico europeo, soprattutto per quanto concerne l'invasione russa dell'Ucraina. Per capirci: Keir Starmer, primo ministro del governo di Sua Maestà Carlo III, laburista e quindi distante dalla visione neoconservatrice del miliardario newyorkese che governa gli States, ha assunto decisioni tra le più ferme nei confronti di Putin. Ha fornito armi non solo difensive a Kiev e, per questo, è stato più volte minacciato dai tirapiedi del satrapo che spadroneggia al Cremlino. Ha inasprito le sanzioni economiche e si è dichiarato propenso anche ad inviare truppe sul campo di battaglia per frenare lo strapotere dell’Armata Rossa nel Donbass. Un atteggiamento consono e condiviso sia dal Parlamento che dall'opinione pubblica inglese, ove i profeti disarmati, i maîtres à penser della pace ad ogni costo, non godono certo né di credito né di popolarità. Una politica che non contempla le mezze misure, le mezze vergini tra i politici oppure i pannicelli caldi tra le cose da decidere. Per dirla tutta, uno come il "nostro" Matteo Salvini non verrebbe preso in alcuna considerazione, né sarebbero degne di nota le ambiguità di un soggetto che ha sempre oscillato tra due posizioni in aperto contrasto tra loro: da un lato la solidarietà alla politica del governo Meloni dall'altro il perenne e strumentale distinguo con l'Europa e con la politica estera italiana. Una contorsione che, alla fine, rischia di rivelarsi solidale con gli interessi di Putin, sia nelle vicende ucraine che nei rapporti con la Russia in quanto tale. In fondo l'idiosincrasia salviniana nei confronti del governo di Bruxelles, espressione residuale dei "sovranisti", si mostra in perfetta sintonia con il nazionalismo di Orbán e di Marine Le Pen in uno con le mille perplessità verso un esercito europeo corroborato da quel pacifismo farlocco che, alla fine, dovrebbe sfociare nel cappio stretto attorno al collo di Zelensky e della sua nazione, invasa e massacrata dal genocidio che compiono i russi. Una rivisitazione, da parte del segretario della Lega, della teoria autonomista ed eccentrica della Padania rispetto al resto della nazione, tesi riformulata dopo aver fallito con la svolta unitaria tra Nord e Sud, ai bei tempi delle vacche grasse elettorali!! Ecco allora che preferiamo Albione alla Padania, perché almeno nella prima chi perde va a casa mentre, nel caso del ministro dei Trasporti, ha potuto entrare in due governi (Conte e Meloni) di segno politico diametralmente opposto depauperando milioni di voti che gli erano piovuti addosso nella fase post Berlusconiana. Tuttavia e’ restato comunque in sella come leader di partito. In Inghilterra invece gli sfratti dei politici perdenti non contemplano eccezioni.