L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, già capo di Stato Maggiore della Marina e della Difesa, presidente del Comitato Militare NATO dal 17 gennaio 2025, ha espresso il suo pensiero da tecnico, circa la possibile evoluzione della frizione che, dal 1945, oppone l’Occidente europeo alla Russia. Chiariamo subito: da tecnico doveva darla ai politici, che avrebbero potuto diffonderla. Invece ha rilasciato intervista a quotidiano britannico, pensando da comandante NATO, e – a mio parere – ha detto cose sensate. Quello che sensato sembra non sia è che – come diceva Giolitti – un militare esprima delle idee. Per cui si finisce sempre per definire inopportuna ogni frase di militare, se determina discussioni. Inutile peraltro polemizzare, è così e fa parte delle regole del gioco, che non possono essere modificate.
Sostanzialmente, sulla base dello stillicidio nel settore cyber delle offensive di hacker manovrati – forse – dal Cremlino, ha espresso la disponibilità della NATO a ridiscutere le procedure di reazione dell’alleanza, che è stata concepita per difendere.
In effetti, dalla sua costituzione nel 1949, l’Alleanza Atlantica è rimasta fedele ad una dottrina che prevedeva la reazione ad un’invasione da est dell’Europa. La dottrina sovietica era permeata dei principi del blitzkrieg, che prevedevano rapide penetrazioni per acquisire aree critiche – nelle pianure tedesca o padana, in questo caso violando il territorio jugoslavo – da utilizzare quali merce di scambio al tavolo della trattativa. Per contrastarla furono concepite una serie di misure che andavano dall’organizzazione della guerriglia nelle aree occupate, all’acquisizione del dominio del mare e dell’aria per strangolare commercio e alimentazione degli scaglioni avanzati nemici, all’attacco alle forze nemiche affluenti da dietro, al rapido rischieramento di forze statunitensi con robusto ponte aereo, alle armi nucleari. Si puntò inoltre sulla superiorità tecnologica, ben conoscendo che sarebbe stato difficile inizialmente contrastare la marea “rossa” scatenata verso ovest, non disponendo di forze d’ugual volume.
L’equilibrio del terrore legato alla disponibilità di armi nucleari da parte dei due fronti contrapposti e, successivamente, l’implosione dell’Unione Sovietica, che per alcuni decretò la sconfitta del comunismo, resero teorica tale contrapposizione. Nessuno aveva interesse che si concretizzasse, e chi era comunista si affrettò a farsi progressista, decidendo che l’Unione Sovietica fosse “fassista”. Per cui il comunismo non aveva perduto: contento lui!
Ora, specie da quando è stata avviata l’Operazione Militare Speciale contro l’Ucraina, si sono registrati continui attacchi informatici contro l’Occidente. E se probabilmente non hanno avuto grosso successo quelli contro i sistemi NATO, caratterizzati da ridondanza e sicuramente minore permeabilità, abbiamo assistito con una certa frequenza a malfunzionamenti dei software di aeroporti e reti ferroviarie. Questi, uniti agli scioperi di venerdì caratteristici del Bel Paese, qualche problemino l’hanno creato.
Per reagire a un Gruppo Operativo di Manovra (GOM) sovietico che puntasse a stabilirsi in aree critiche occidentali si poteva far ricorso a bombardamenti aerei, anche nucleari e missilistici, imbastendo una resistenza elastica per cedere terreno e logorare lo inimico, e organizzando una 5^ colonna che operasse dietro le linee “rosse”. In sintesi s’imponevano perdite anche all’avversario.
Invece poco da fare vi è con l’attacco informatico, e sinora sembra che l’unica reazione sia stata quella di ripristinare i sistemi. Riducendo il tempo di disagio, ma non arrecando pregiudizio al potenziale avversario.
Non cadiamo nel banale sostenendo che la migliore difesa sia l’attacco: la storia c’insegna che non si possa postulare tale regola e che in determinati casi la difesa sia la migliore difesa. Tuttavia, nel caso indicato dall’ammiraglio, un “attacco”, della stessa natura di quelli più volte sopportati dall’Occidente, appare l’uovo di colombo per arrecare danni a chi sceglie attacchi cyber.
La Guerra dei Sei Giorni del 1967 fu un attacco preventivo d’Israele, prima che i paesi arabi lanciassero la propria offensiva. Ebbe successo in virtù del principio da street fighter che vuole che “chi mena primo mena du’ vorte”.
Non mi sento quindi neppure di ritenere che le frasi dell’ammiraglio siano una fuga in avanti: dubito che il Segretario Generale della NATO, l’olandese Mark Rutte, ne fosse all’oscuro, né mi stupirei che non fosse stato concordato.
In effetti una volta la NATO metteva in guardia l’Unione Sovietica dall’impiegare armi nucleari, spiegando a chiare lettere che la dottrina della “risposta flessibile” in quel caso avrebbe comportato l’impiego d’analogo armamento.
Questa volta – ma era meglio l’avesse detto un politico, basta ricordarsi delle sparate di Stoltemberg, ex-segretario generale della NATO – si è notificato all’avversario potenziale che si potrebbe far ricorso al suo stesso tipo di attacchi, che hanno effetto se preventivi. Che poi, possiamo definire davvero preventivi, se ne stiamo subendo da qualche anno?
In un certo senso è come dire “finora ho cercato solo di scansare i colpi, domani potrei tirarne uno io”. Comprensibile che gli alfieri della pace “senza se e senza ma” si preoccupino, ma stupisce che mantengano olimpica serenità per le torme che, periodicamente, ci distruggono le città.
Venti di guerra o realismo?
Scritto da carmelo burgio
Politica
04 Dicembre 2025
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